Le nefandezze della guerra hanno innescato un processo di internazionalizzazione di forme di tutela dei diritti dell’uomo, che, nonostante le antiche radici storico religiose, prende formale avvio con la stesura della Dichiarazione Universale del 1948, alla base di tutti i successivi processi di codificazione, statuale e internazionale, sulla materia.
La lotta ai crimini transnazionali è stata così affidata ad una giustizia penale internazionale, fondata su un insieme di norme e di apparati funzionali alla relativa repressione, persecuzione e punizione, che tuttavia non ha sortito l’effetto sperato.
L’istituzione dei cd. Tribunali ad hoc e della Corte penale internazionale, infatti, non ha generato una chiara ed effettiva cristallizzazione di regole di protezione comuni e ogni tentativo di uniformare il diritto penale sostanziale dei singoli Stati si è rivelato nel tempo fallimentare. Ciò sia per la natura estremamente eterogenea dei sistemi giuridico-repressivi degli ordinamenti coinvolti, che per le difficoltà applicative derivate dalla coniugazione di forme di giurisdizione statuale con strumenti internazionali di tutela penale.
Più che a organismi internazionali, la protezione dei diritti dell’uomo deve affidarsi alla ricerca di un linguaggio universale comune, non necessariamente ed esaustivamente giuridico, e alla sempre maggiore armonizzazione delle normative processuali dei singoli Stati.
In questo senso, l’esponenziale diffusione di associazioni e organizzazioni criminali a carattere transnazionale ha spronato negli anni la ricerca di strumenti coordinati di contrasto, in grado di levigare le diversità dei vari ordinamenti giuridici, con l’individuazione di tecniche investigative, giudiziarie e cautelari comuni, nell’ottica di un processo di sempre maggior avvicinamento tra le normative processual penalistiche di volta in volta interessate.
Per questo, nel territorio europeo, dai classici sistemi rogatoriali, spesso caotici, datati e di non agevole attuazione, si è passati ad un meccanismo collaborativo di ampio respiro, fondato sul principio del mutuo riconoscimento e sulla libera circolazione della prova. E a partire dal consesso tenutosi a Tampere nel 1999, l’Unione ha intrapreso un percorso di giurisdizionalizzazione che ha consentito una forte semplificazione dei rapporti tra i singoli Stati nella ricerca ed acquisizione della prova circolante nel territorio europeo.
Ciò, giova ripetere, per la repressione di crimini aterritoriali, di difficile collocazione spaziale o particolarmente allarmanti per la comunità internazionale. Tra questi, rientrano senza dubbio i delitti di matrice terroristica e quelli commessi da stranieri in regime di clandestinità, che sfruttano le evidenti lacune e i vuoti di tutela derivanti dal mancato coordinamento delle norme sostanziali e processuali degli Stati via via coinvolti.
Abbiamo ritenuto di accorpare in un’unica opera la trattazione dei temi connessi alla protezione dei diritti dell’uomo e alla cd. libera circolazione della prova, e delle problematiche legate alla criminalità terroristica e straniera. Terrorismo e immigrazione sono dunque analizzati sul piano criminologico, in relazione ai profili criminogenetici e criminodinamici di riferimento.
L’uno con riguardo alle caratteristiche che lo connotano – in particolare il ricorso indiscriminato alla violenza simbolica – l’altro in relazione all’influenza di fattori devianti di tipo esogeno, spesso riscontrati nella condizione di debolezza e asocialità che accompagna lo straniero nel percorso adattativo con l’ambiente ospitante.