La vita dopo Auschwitz psicologia dei campi di concentramento

«Sono nato due volte. Alla mia prima nascita non c’ero. Il mio corpo è venuto al mondo il 26 luglio 1937 a Bordeaux. Me l’hanno detto. E devo crederlo poiché non ne ho alcun ricordo. La mia seconda nascita, invece, è fissa nella mia memoria. Una notte, sono stato arrestato da alcuni uomini armati che circondavano il mio letto. Mi stavano cercando per uccidermi. La mia storia è nata quella notte.»

Boris Cyrulnik, celebre psichiatra francese, ha un passato tormentato alle spalle: i genitori, di origine ebraica, sono stati rinchiusi e assassinati nel campo di concentramento di Auschwitz quando lui era ancora un bambino. Rimasto solo, è caduto prigioniero dei nazisti ma è riuscito a salvarsi per miracolo nascondendosi nel bagno della sinagoga della sua città.

Dopo aver trascorso l’infanzia come un fuggitivo, in casa di famiglie che lo ospitavano e in orfanotrofio, terminata la guerra ha scelto di diventare psichiatra. Pur lavorando ogni giorno con traumi e sofferenze da superare, soltanto di recente è riuscito ad affrontare il proprio passato, per testimoniare a voce alta l’orrore vissuto e le conseguenze dolorose che ha dovuto affrontare crescendo. La vita dopo Auschwitz è un viaggio nella memoria, un’esplorazione profonda dei ricordi di un passato che emerge dopo un lungo silenzio.

La memoria, ci dice Cyrulnik, non racconta la verità storica dei fatti, ma un’altra verità, soggettiva ma non per questo meno reale: un meccanismo dal potere salvifico che cancella, seleziona e modifica quello che è accaduto e che nel tempo ha plasmato i nostri ricordi per rendere il dolore accettabile aiutandoci a superare i traumi vissuti.

Attraverso la sua storia, Cyrulnik si rivolge a tutti coloro che cercano di scappare da un passato difficile: un lavoro paziente, in cui l’autore si è messo in gioco, accettando di essere per la prima volta soggetto e oggetto della propria ricerca. Un saggio che unisce le emozioni e la sofferenza di un sopravvissuto a una rigorosa analisi sulla costruzione della memoria, da cui emergono i segni di un’infanzia stravolta dalla guerra e, al tempo stesso, il desiderio di superare l’infelicità per rispondere con forza alla chiamata della vita.

L’esigenza che Auschwitz non si ripeta più un’altra volta si situa prima di ogni altra in campo educativo. Precede di tanto ogni altra, che credo non sia necessario fondarla né si abbia il dovere di farlo. Essa dovrebbe giustificare qualcosa di atroce davanti a quel che di atroce accadde.

Il fatto però che di quell’esigenza, e delle questioni che essa solleva, si sia così poco consapevoli, indica che quell’atrocità non è stata capita dagli uomini, e ne è sintomo il continuare a sussistere della possibilità della sua reiterazione, per quanto riguarda lo stato conscio e inconscio degli uomini.

Tra le intuizioni di Freud, che invero sconfinano anche nella cultura e nella sociologia, una delle più profonde è senza dubbio quella secondo cui la civilizzazione produce, dal canto suo, il principio anti-civilizzatore, e lo rafforza sempre più.

Le sue opere Il disagio della civiltà e Psicologia delle masse e analisi dell’Io meriterebbero la più ampia divulgazione proprio in relazione ad Auschwitz. Se nel principio di civilizzazione trova le sue fondamenta anche la barbarie, allora esso possiede qualcosa di disperato, contro cui dobbiamo insorgere.

Nei campi di concentramento e di sterminio, la realtà umana e morale era così varia da lasciare spazio a vaste «zone grigie». L’immoralità era presenza costante, ma talmente intrecciata a qualità umane da rendere spesso impossibile stabilire dei confini. Il terreno di questa ampia zona grigia corrispondeva al valore assoluto del sopravvivere.

Le dosi quotidiane di cibo, per esempio, già facevano parte del progetto di sterminio, perché non erano sufficienti ad assicurare la sopravvivenza. In tali circostanze, fra i prigionieri il furto, l’inganno e altre pratiche immorali diventavano tanto omicide – perché sottraevano ad altri l’ultimo spiraglio di sopravvivenza – quanto lecite, perché costituivano un’infrazione minimale ai valori correnti rispetto al valore della vita.

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